La Barbajada

Si lo so è la Vigilia di Natale ma non potevo lasciarvi senza il consueto articolo del lunedì. Conoscete la Barbajada? La maggior parte dei milanesi non se la ricorda quindi, qualora il nome non vi dicesse nulla, siete in ottima compagnia. Fu inventata a metà dell’800 da Domenico Barbaja e servita da allora in tutti i bar e le caffetterie milanesi. Di Domenico Barbaja abbiamo già parlato un paio di settimane fa, vi ricordate? Quando abbiamo parlato del Museo della Scala. Domenico Barbaja oltre che aver scoperto Rossini è noto per aver fondato il caffè dei Virtuosi. Agli inizi della sua carriera invece era un semplice garzone e cameriere e fu il primo a servire quella che sarebbe diventata una bevanda famosissima nel centro di Milano.

Ad oggi forse, è ancora possibile ordinarla in alcune pasticcerie storiche, io lo scorso anno sono andata da Sant’Ambroeus, aperta ancora nel 1936. Si trova in Corso Matteotti al numero 7, nel palazzo costruito da Emilio Lancia. Gli arredi sono originali, i lampadari di Murano, i divani in pelle, i tavoli di legno. Tutto trasuda eleganza e prestigio e la loro cioccolata è una delle più buone che abbia mai assaggiato: densa e già zuccherata noi l’avevamo accompagnata con della pasticceria mignon.

Vi lascio la ricetta della barbajada:

Ingredienti per 4 persone: 4 cucchiaiate di cacao amaro, zucchero a piacere, mezzo litro di latte freddo, quattro tazzine di caffè bollente, panna montata, biscottini lingue di gatto o savoiardi o biscotti secchi.

In una casseruola stemperare il cacao con poca acqua, poi unirvi il latte e il caffè sbattendo bene con una frusta; mettere su fuoco dolce e sempre sbattendo portate quasi a bollore, sino a quando si formerà in superficie una schiumetta bianca. Versare il composto in quattro tazze, decorare con un ciuffo di panna e servire subito la bevanda ben calda accompagnata con i biscotti prescelti.

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Per domani, buon Natale a tutti.

San Maurizio al Monastero Maggiore

Non so se avete mai visitato San Maurizio al Monastero Maggiore, ma se ci state pensando e la vostra risposta non è un immediato si, probabilmente non avete mai varcato la soglia. Ci troviamo in Corso Magenta, proprio accanto al museo archeologico, del quale parleremo più avanti quando affronteremo il discorso “Milano Romana”.

Vediamo un po’ la storia e poi entriamo, rimarrete sicuramente a bocca aperta, ve lo prometto!

Si conosce pochissimo della committenza. Viene affidata a Gian Giacomo Dolcebuono, lo stesso della tribuna del Duomo e della Chiesa di Santa Maria presso San Celso coadiuvato dall’architetto Giovanni Antonio Amadeo. Nel 1506, muore il Dolcebuono ma lascia progetti molto precisi cosicché in pochi anni viene costruita.

La storia è legata alle monache benedettine: il convento era tra i più grandi e importanti della città, per questo ebbe il nome di monastero maggiore. Alla fine del 700 Napoleone dichiara la chiusura di tutte le chiese, monasteri e molti beni furono spediti in Francia. La chiesa fu lasciata nell’incuria e fu usata come magazzino. Viene restaurata a metà degli anni 80 del secolo scorso grazie ad una donazione ancora oggi anonima e alla BPM.

La facciata è in pietra grigia di Ornavasso mentre sotto la chiesa scorre il Nirone e questo è il motivo per il quale gli affreschi nella parte bassa sono in parte rovinati.

Su, varchiamo la soglia. L’interno è a navata unica con 10 campate divise in due da una parete divisoria. Si tratta di una galleria di opere d’arte del Luini del quale si sa poco della prima formazione ma che sicuramente ha studiato sui lavori di Leonardo. La parete centrale è interamente opera sua, sia davanti che dietro.

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Le monache benedettine erano di clausura e infatti c’è una grata tra la parte adibita alle monache e l’aula dei fedeli. Al tempo c’era un varco molto ampio chiuso solamente da un tendaggio ma nel periodo della controriforma si pensò che lo spazio aperto fosse troppo ampio e pertanto fu ridotto con l’aggiunta della grata. Della seconda metà del 500 la tela di Antonio Campi con l’adorazione dei magi.

La famiglia Bentivoglio di Bologna commissiona a Bernardino Luini la facciata. Il figlio Alessandro era governatore di Milano ed era sposato con Ippolita Sforza. Ve la descrivo brevemente, in modo che quando entrerete non vi perderete nemmeno un particolare.

La lunetta di sinistra: in ginocchio in abiti scuri è Alessandro Bentivoglio, il committente, che viene raffigurato giovane anche se in realtà all’epoca avrebbe dovuto essere sulla sessantina mentre nella lunetta di destra vengono rappresentate Santa Agnese, Santa Scolastica e Santa Caterina d’Alessandria. Inginocchiata Ippolita Sforza moglie di Alessandro Bentivoglio. Sotto questa lunetta troviamo il Cristo e sotto ancora una piccola finestrella per comunicare con le monache.

Quadrato centrale in alto: si tratta dell’Assunzione in cielo della Vergine circondata dagli angeli in gloria e sotto gli apostoli. A sinistra vediamo San Maurizio con la tunica azzurra mentre a destra troviamo sul podio ancora San Maurizio mentre sotto di lui con il modellino di una chiesa in mano è San Sigismondo che si è convertito grazie a San Maurizio.

Le cappelle sono tutte meravigliose ma vi voglio raccontare di quelle a destra della grata.

La prima è la cappella Besozzi, interamente decorata dal Luini. La scena principale è la rappresentazione di Cristo alla Colonna. Avete notato il sangue che scorre sulla colonna? Giovanni con Maria e le pie donne al sepolcro. A sinistra e a destra Santa Caterina con il suo martirio. Il Luini aveva già dipinto a Monza, a villa Pelucca, una Santa Caterina di Alessandria ricomposta in volo. Ha fatto discutere il fatto che nel viso della Santa fosse ritratta la duchessa di Challon che era stata giustiziata sulla piazza a Milano. Nella parte alta invece, i simboli della passione quindi i chiodi, le spine e al centro il Dio Padre. La seconda è la cappella della Deposizione a memoria di Bernardino Simonetta vescovo di Perugia e imparentato con Ippolita Sforza. Opera di Callisto Piazza. A sinistra possiamo ritrovare San Giacomo e San Lorenzo, mentre a destra San Giorgio con il drago mentre la terza è la cappella di San Paolo che venne affrescata a Ottavio Semino ed è dedicata alla predica di San Paolo.

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Le cappelle a sinistra della grata sono state affrescate probabilmente dai figli del Luini che però non sono mai arrivati all’abilità del padre.

Invece, giriamoci verso la controfacciata che è stata interamente dipinta da Simone Peterzano allievo del Tiziano e maestro di Caravaggio…così per fare due nomi! A sinistra la paternità e a destra il sacro e il profano, sotto l’antico e il nuovo testamento.

Bene, adesso che ci siamo lustrati gli occhi per bene possiamo passare nell’aula delle monache da quel passaggio che trovate lì a sinistra.

In quel bel soffitto blu puntellato di stelle è raffigurato Dio Padre benedicente con i 4 evangelisti e gli angeli. L’opera è stata attribuita alla bottega del Foppa, è la nostra immagine di copertina.

Non vi voglio ammorbare ulteriormente spiegandovi per filo e per segno tutti i santi e le opere che vedrete in questa parte dedicata alle monache ma, almeno due parole sull’organo che è opera della famiglia Antegnati nota all’epoca per la produzione di questi strumenti. Raffigurati nelle ante fuori San Maurizio e San Sigismondo mentre all’interno Santa Cecilia e Santa Caterina e sull’ultima cena in fondo alla chiesa. Come potete notare è diversa da quella del Cenacolo Vinciano. Qui Giuda è rappresentato con il sacchetto di monete e a destra della porta possiamo vedere la cattura di Cristo. Proprio alla sua sinistra è raffigurato ancora Giuda con il suo sacchettino; ci avevate fatto caso?

44986999_10213224358586949_5330829737537306624_n A sinistra invece la cappella del diluvio universale che ricorda i bestiari medievali; è attribuita a uno dei figli del Luini ma non è certo.

Vi lascio qualche foto. Ci troviamo in Corso Magenta e ultima chicca, nei mesi di maggio giugno è possibile ascoltare dei concerti di musica classica presso questa chiesa. Andate a visitarla mi raccomando, perchè per quanto ve ne possa parlare nulla è il confronto con quello che vedranno i vostri occhi.

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Il teatro della Scala e il suo museo

Come capirete questo mese il blog sarà dedicato alle tradizioni meneghine di dicembre e pertanto non possiamo fare a meno di parlare della Scala e del suo museo. Ieri c’è stata la prima con Attila con la direzione di Riccardo Chailly della quale avrete sicuramente letto o visto al telegiornale, ma a noi in questo momento interessa poco.

Io credo che il teatro della Scala sia una delle cose più belle in assoluto. Ho avuto la fortuna di frequentarlo per un periodo trovando posto sia in platea che sui palchi, sia per il balletto classico che per l’opera e ogni volta che varchi la soglia respiri quell’aria di eleganza, perbenismo, vecchi fasti, tutto quello che per noi meneghini è la tradizione.

Non è sempre stato così, anzi a dire la verità è sempre stato completamente diverso l’atteggiamento di chi frequentava questo teatro ai tempi. Vi racconto un po’ la storia e poi vi lascio qualche foto a corredo.

Ci troviamo nel 1776 quando il vecchio teatro della Scala prende fuoco, d’altra parte era fatto totalmente in legno e si trovava da un’altra parte rispetto a dove lo conosciamo oggi, era dalle parti di Palazzo Reale. Ferdinando d’Austria (sempre gli austriaci) incarica pertanto il Piermarini di ricostruirla ma che abbia una struttura anti-incendio questa volta. I luoghi tra i quali scegliere per costruire questo nuovo teatro erano principalmente 3:

  • La zona del Castello dato che quest’ultimo non versava in splendide condizioni
  • La Guastalla
  • L’attuale piazza della Scala dove però sorgeva la chiesa di Santa Maria della Scala fatta erigere da Beatrice Regina della Scala moglie di Bernabò Visconti. Come vediamo oggi fu deciso di abbattere la chiesa per far posto al teatro e 2 anni dopo ci fu l’inaugurazione del nuovo teatro della Scala.

A quell’epoca i palchi erano principalmente privati e ognuno poteva arredarseli come voleva. Si poteva cucinare, si urlava da palco a palco e non c’era nessun rispetto per i cantanti ai quali venivano richiesti anche 4 o addirittura 5 repliche. Per non parlare poi del fatto che non c’erano i bagni a teatro…si racconta addirittura di un toro inseguito da cani in platea…Ferdinando si vede quindi costretto a emettere delle grida dove si fa divieto di cucinare, di svuotare i pappagalli in platea e per i più turbolenti la prigione sotto alla platea dove venivano chiusi a chiave. Ci pensavate?

Nel 1883 alla Scala arriva la luce elettrica. Il lampadario attuale è da 400 luci. Quello che conosciamo oggi purtroppo non è quello originale ma una copia. L’originale era stato smontato durante la guerra per salvarlo e ricoverato in una cantina che fu poi bombardata.

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Nel 1897 la Scala dovette chiudere, riaprirà solamente il 26 dicembre del 1898 con un’opera diretta da Arturo Toscanini, terribile direttore d’orchestra che vieterà entrare in ritardo, i bis e i cappelli e le pellicce per le signore; lascerà il teatro agli inizi del 900 per dissapori con il pubblico.

Fino al 1951 la prima della Scala si è sempre fatta a Santo Stefano, è cosa abbastanza recente pertanto fare la prima il giorno di Sant’Ambrogio.

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Annesso al teatro della Scala vi consiglio di andare a vedere il museo del teatro che è del 1912/1913

Nella sala d’introduzione vediamo Verdi e sopra un ritratto del Piermarini. C’è una spinetta per insegnare alle fanciulle a suonare e un quadro di Domenico Barbaja prima cameriere e poi direttore del teatro di Napoli. È colui che scoprirà Rossini che poi sposerà sua moglie.

C’è la saletta della commedia dell’arte con alcune riproduzioni di Arlecchino e altre maschere, come la foto che ho allegato, potete poi passare alla saletta dell’esedra con le prime donne della stagione ottocentesca della Scala, insomma se siete interessati all’argomento non dovrebbe mancare questo museo che di solito è visitato da turisti stranieri ma pochi italiani lo conoscono.

 

Oh bei! Oh bei!

Il primo articolo di questo blog è stato sulle tradizioni del Natale, quasi un anno fa. Chi mi conosce anche nella vita reale sa che questo è il mio periodo preferito dell’anno, quindi parleremo ancora di Natale e delle sue tradizioni. Da venerdì 7 dicembre a lunedì 10 dicembre ci sarà la fiera degli Oh bei! Oh bei! Quest’anno ancora nei dintorni del Castello Sforzesco, il cui ingresso è gratuito e dove potrete trovare diversi espositori di fiori, giocattoli, dolci, caldarroste, vin brulè e miele, artigiani…

La fiera degli oh bei oh bei è pura tradizione meneghina, e da circa 5 secoli anticipa le festività natalizie. Certo con il tempo le cose sono un po’ cambiate. Da una ventina di anni c’è l’artigianato in fiera, ad ingresso gratuito nel nuovo polo fieristico di Rho/Fiera che consente di respirare il clima natalizio per circa una settimana e dove sicuramente troverete un sacco di idee da tutta Italia e da tutto il mondo per i vostri regali di Natale. Da qualche anno nei dintorni del Duomo sono anche arrivate le casette in legno, stile mercatini di Natale, dove potrete trovare altre idee per i vostri regali ma, io ho un animo romantico e sono legata alle tradizioni e quindi gli oh bei oh bei, anche se i tempi sono cambiati, rimangono i miei preferiti.

Il weekend è ovviamente quello nel quale si festeggia il nostro santo patrono Sant’Ambrogio e per anni, prima che si trasferisse qui al Castello erano le vie intorno alla Basilica omonima che ospitavano la fiera.

Ma che cosa significa l’espressione Oh bei! Oh bei!? E da dove arriva? La storia racconta che nel 1510 Giannetto Castiglione arrivò in città incaricato da Papa Pio IV per cercare di riaccendere la fede dei milanesi. Arrivato nei dintorni della città però, Castiglioni temette di non essere ben accettato dalla popolazione che non aveva mai manifestato tanta simpatia nei confronti del Papa, e poi eravamo proprio sotto la festa del Santo Patrono… Decise pertanto di portare con sé tanti pacchi pieni di giocattoli e dolciumi da distribuire ai bambini che appunto risposero con la frase oh bei oh bei che in italiano significa che belli che belli. All’epoca era tipico trovare sui banchetti le mostarde, i castagnacci e i firun che erano delle castagne cotte al forno con il vino bianco infilate in uno spago a mo’ di collana.

 

L’immagine di copertina è un quadro presente a Palazzo Morando del pittore Carlo Agazzi intitolato “La fiera degli Oh bei! Oh bei! del 1900.